Un Natale diverso

Campo di lavoro e di amicizia dicembre 2008
Anna Chiara Vezzoli

Partimmo da Caselle con il gelo nelle ossa e un po’ di curiosità verso quel mondo di cui fratel Albino, mio zio, parlava sempre e su cui avevamo fantasticato fino a quel momento.
Personalmente non avevo molta voglia di affrontare l’esperienza forse perché presa da altri pensieri e distrazioni che mi allontanavano dal desiderio di partire per scoprire una nuova realtà.
Il effetti, però, sarebbe stato un Natale diverso!

Arrivammo nella capitale, Ouaga, alle 18 ed iniziammo a sudare sotto i nostri maglioni invernali… pensare che i burkinabé avevano freddo!
Ouaga ci apparve affascinante: povertà e grandi palazzi convivevano immersi nel clima natalizio di quei giorni. Era strano pensare che in un posto così caldo si addobbassero piccoli abeti con fili lucenti.

Al centro di accoglienza in cui andammo e fummo ospiti le persone erano calorose; dopo tanti sorrisi e tante strette di mano, il gruppo un po’ stanco per il viaggio e per il caldo, si addormentò con il solo rumore dei ventilatori.

Il giorno dopo al nostro risveglio iniziò il nostro viaggio attraverso la savana.
Il caldo si faceva sentire sempre più mentre ci dirigevamo verso la meta prefissata: Nanoro. La strada fu lunga; gradualmente ci addentrammo nella savana tra baobab enormi e barrages, ogni tanto spuntavano caprette, mucche, villaggi che sembravano quelli visti nei libri di storia quando si studiavano le popolazioni primitive e tanti bambini e ragazzi che nella strada, in mezzo al nulla, ci salutavano addirittura in italiano.

Finalmente arrivammo a Nanoro dove ci accolsero i Fratelli africani della Sacra Famiglia.
Cominciammo a visitare le varie strutture costruite dai Fratelli e poi affidate ad altre congregazioni religiose tra le quali desidero citare l’ospedale dei Padri Camilliani, il più importante per il Burkina. Niente male per essere un ospedale nella savana, se paragonato ai nostri, dei quali molti si lamentano.
Sarebbe stato interessante vedere le espressioni degli italiani di fronte a tale realtà.

La scuola, sempre opera dei Fratelli della Sacra Famiglia, ci fece riflettere molto; le classi erano formate da circa 40/50 bambini, tutti silenziosi davanti a un solo giovane maestro.
Quando entrammo nelle aule ci accolsero cantando e sorridendo ai nostri flash.
Al momento del pranzo ecco i bambini correre verso la “mensa” e mettersi in fila aspettando la loro ciotola di riso e fagioli che la maggior parte di loro non mangia, ma versa il contenuto della ciotola in un piccolo sacchetto da portare a casa per condividerlo con la propria famiglia. Quel che è certo è che nessuno di quei bambini avrebbe avanzato nulla nel piatto.

Arrivò la vigilia di Natale. Tutto era diverso: la gente era tranquilla e non come noi che se fossimo rimasti a casa saremmo stati indaffarati ad impazzire nei negozi per comperare gli ultimi regali.
La Messa di Natale fu uno dei momenti che mi colpì maggiormente: temevo di avere difficoltà a rimanere sveglia non comprendendo nessuna parola della lingua locale. Invece fu diverso: i canti e i colori mi tennero desta
Ecco che scoprii in quel piccolo villaggio della savana la vera gioia del Natale. Sicuramente un Natale originale.

Facemmo anche visita al re del villaggio “Sua Maestà”, mi parve una persona molto saggia. Disse che Nanoro non è una meta turistica, ma è un luogo in cui si possono trovare affetto, amicizia, gratitudine. Aggiunse che se molti di tali sentimenti esistessero anche tra altre popolazioni, come si vivono tra italiani e burkinabé, si potrebbero evitare e si sarebbero evitate tante guerre inutili.

Nei giorni che seguirono fummo sconvolti dalla visita alle cave d’oro dove giovani, come noi, lavoravano in maniera disumana per pochissimo denaro al mese. Fummo molto turbati di fronte ad essi, i quali non vivono d’oro, ma solo della speranza di trovarlo.
Il giorno del mio compleanno fummo invitati nei tre centri fondati da una grande persona: fratel Silvestro che donò la sua vita per il Burkina. Nei centri, i ragazzi destinati a vivere ai margini della società imparano a coltivare la terra e a lavorare il legno e il ferro. I nostri sprechi diventano per loro preziose materie da riutilizzare per creare qualcos’altro.
Fu un compleanno diverso, ma altrettanto bello: i miei 17 anni arrivarono in questa terra africana dove anche d’inverno fioriscono i fiori e dove si perde
facilmente la nozione del tempo.

Arrivò capodanno anche a Nanoro, differente da quelli che avevo vissuto. Alla sera il villaggio si animò di suoni e luci. Tutti erano in festa. Dopo esserci scambiati gli auguri andammo nel centro del paese con i tanti bambini che, vedendoci, accorrevano verso di noi per darci la mano e accompagnarci verso la festa. Sembrava una piccola Napoli piena di botti e fuochi d’artificio!
Il primo dell’anno fu il grande giorno per la quarta edizione della corsa degli asini. Gli iscritti erano 250, ma si presentarono in 400 persone se non di più e tutti cercavano di far numerare il magro asinello pur di parteciparvi e ricevere 10 kg di riso.
La gara si concluse ed il primo classificato vinse un sacco di riso ed un asino. Tutti gli altri con il loro asinello restarono in fila, l’uno “incollato” all’altro quasi per tre ore per un sacchetto di riso da 10 kg… e noi in Italia ci lamentiamo per le code alle casse dei supermercati.

Gli ultimi giorni del nostro soggiorno in Burkina ci dedicammo allo “shopping” all’interno di un bellissimo villaggio artigianale; nessuno poté fare a meno di acquistare qualcosa da portare come ricordo alle persone care.
La partenza ormai si faceva sentire e anche i bimbi di Nanoro l’avevano capito. Ognuno ci chiedeva qualcosa: chi le scarpe, chi lo zaino, chi si accontentava delle caramelle (i bonbon) e quando li vedevo con un paio di ciabatte di plastica tutte rotte che loro custodivano con cura, o con i loro vestiti tutti sporchi e strappati, mi sentivo la più fortunata del mondo e dimenticavo tutti i problemi.
Mi si stringeva il cuore perché di fronte a tutti questi bimbi mi sentivo inutile ed impotente. Il primo pensiero che mi veniva in mente era quello di svuotare la mia valigia nel cortile dei Fratelli, ma pensandoci, riflettendoci, non sarebbe servito a nulla tutto ciò perché sicuramente i miei vestiti e le mie scarpe non sarebbero serviti a salvarli dalla povertà e dalla fame.
Non solo, avevo seri dubbi sull’utilità di donare loro le mie cose: se i bimbi capissero che ogni volta che arrivano i bianchi si potrebbe chiedere loro qualsiasi cosa imparerebbero a mendicare e nessuno sentirebbe mai il bisogno di imparare un mestiere per poter un giorno acquistare da solo un paio di ciabatte.

Sembrava un discorso “sciocco” e che nessuno sarebbe stato in grado di capire davvero, ma era la pura verità: questo popolo deve imparare a camminare con le proprie gambe, ma soprattutto desiderare di farlo perché se manca la motivazione di progredire e svilupparsi non ci sarà un futuro migliore ad attendere questo popolo.

È stato un grande viaggio. Grazie ai gesti, ai sorrisi ed agli sguardi riuscivo a farmi capire anche non parlando la stessa lingua nelle tante occasioni in cui sotto l’hapatam (luogo del cortile dei Fratelli dove i bambini si ritrovavano a giocare) facevo animazione ed ero in difficoltà nel comunicare con loro per il mio francese un po’ scorretto.

Tutto ciò mi ha arricchita molto; giorno dopo giorno qualcosa ha riempito il mio cuore e la mia mente distraendomi dalla nostalgia di ritornare a casa e dandomi la gioia del pensiero di poterci ritornare.

 

Per informazioni

 

back