Africa. Aspettative

Campo di lavoro e di amicizia agosto 2012
Martina De Giorgis

È bastato un attimo a far battere il mio cuore più forte, l’attimo in cui mi hanno detto che c’era la possibilità di partire per l’Africa. Un’idea che stava lì da tempo e che cercava solo il momento giusto per venire alla luce, per farsi vedere e presentarsi nelle mie giornate con costanza.
Riflessioni, consigli, discussioni, ricerche su internet. Mamma, papà ho deciso: io parto.
Chiudo le valigie e sistemo la stanza, so che per tre settimane qui rimarrà tutto immobile e silenzioso. E io? Sono pronta a muovermi? A parlare? A mettermi in gioco? L’avrei scoperto solo 24 ore dopo, all’aeroporto di Ouagadougou. Il caldo torrido, l’autan, quel pulmino troppo piccolo per accoglierci tutti e quelle strade senza marciapiedi, senza regole mi tolgono il fiato. Sì, sono pronta! Scoprire che diamo per scontato di essere parte dell’ambiente in cui viviamo, ma che in realtà puoi essere ovunque e il mondo va avanti ugualmente è una lezione di vita. Lo realizzo seduta su un pulmino che presto diventerà il nostro più amato e odiato compagno di viaggio. Accanto a me tutto scorre rapidamente, auto moderne, auto sgangherate, motorini e biciclette. Ma dove andrà tutta questa gente? Mi sento uno spettatore delle vite altrui, del tempo altrui. Come se io, finalmente
dopo anni, mi fossi fermata.

Osservo

Sono abituata a dover ascoltare, scrivere, parlare, dimostrare di aver capito, sostenere esami, sostenere tesi e controbatterne altre. Qui non c’è una verità da sapere e un partito da prendere. Qui io vivo. Vivo i colori, vivo gli odori, vivo i minuti e i secondi che passano.
“Casa nostra, Nanoro”. Abbiamo cominciato a chiamarla così quando siamo tornati in città, a Ouaga. E pensare che quando ci siamo arrivati ci sembrava tutto così spoglio, così triste, così strano. Catapultati nel nulla abbiamo dovuto famigliarizzare con tutto. E poi quel tutto è diventato il nostro tutto, il mio tutto. Mi sveglio presto al mattino con un brontolio allo stomaco che mi implora di andare in cucina e mangiare, mangiare e ancora mangiare.
Mangiare come a casa non ho mai fatto. Mi dicono “mangia che l’Africa ti mangia”, non so se è una verità o una scusa in ogni caso è una frase che trovo davvero perfetta! Mi lavo e mi vesto in fretta perchè non ho molti vestiti da scegliere o abbinamenti da fare. L’importante
è che i pantaloni siano lunghi e le parti scoperte rivestite di Autan.
Parto per l’ospedale insieme a chi, come me, ha scoperto che le passioni vere non puoi lasciarle a casa. Ti seguono ovunque.
Sulla strada adulti e bambini ci salutano con un Bonjour e il signore all’ingresso dell’ospedale ci alza la sbarra per farci entrare. Qui la nostra pelle sudata e i nostri vestiti dismessi e ritirati fuori per l’occasione sono un biglietto di prima classe per ogni luogo e situazione. L’ospedale non ci aspetta, non ha davvero bisogno di noi ma ci accoglie a braccia aperte. Mi dà la possibilità di toccare la fronte a bimbi febbricitanti, di palpare la pancia a bimbi malnutriti e di tenere divaricata l’incisione chirurgica di una donna mentre le viene inciso un rene e tolto l’utero. Direi che donare il sangue è proprio il minimo che posso fare.
Mi sento quasi in debito. Torno dai Fratelli per il pranzo. Si prega prima di mangiare e dopo. Una scocciatura? No, ho sentito e visto con i miei occhi che il cibo non si dà per scontato. O ce n’è poco o non ce n’è. E di questo si muore. Quindi prego e canto col cuore.
Dopo pranzo mi godo la siesta, un concetto che in Italia mi è quasi sconosciuto, raccolgo le forze e sono pronta per dedicarmi a qualche lavoretto. Pennellare, pulire o grattare.
Nessun gesto eroico, nessuna azione indispensabile eppure qualcuno ci ringrazia.
Tornando dai Fratelli mi preparo alla sfida più grande della giornata: i bambini. La loro energia mi colpisce, i loro sorrisi mi emozionano, la loro semplicità mi insegna e il loro sguardo mi scalda. Sono solo bambini, ma le loro braccia sono già abituate al lavoro e le loro schiene alle responsabilità di altri piccoli. Alcuni vogliono e chiedono, altri stringono e abbracciano.
Dopo cena ci disponiamo in cerchio e ci confrontiamo. È un momento piacevole e intenso, ma io spesso non vedo l’ora di poter spostare la mia sedia più distante, dove posso vedere il cielo con le sue innumerevoli stelle. Lo scruto, lo ammiro e già so che mi mancherà.

Gino

Gino è un chirurgo italiano. Ha studiato in Italia, ha lavorato in Italia e ora vive in Africa. Si dedica con passione al suo lavoro, nell’ospedale di Nanorò. Si è occupato lui di istruire gli infermieri per farli diventare dei buoni chirurghi e di questo sembra essere orgoglioso. Se fuori dalle sale operatorie da l’idea di essere un uomo appesantito dagli anni e dal cibo, un po’ pigro e bonaccione, quando indossa guanti e mascherina ci si ricrede. Agisce in maniera decisa, lucida e con forza. Alle volte anche troppa.
Sembra felice della sua vita e delle sue giornate.
Sa di aver dato un grosso contributo per Nanorò, per l’Africa e per gli africani, ma sa anche che l’Africa prima o poi la si deve lasciare e a quel punto non importa cosa hai saputo fare tu, ma cosa adesso sanno fare gli altri. Grazie a te.

Il signore dei cappelli

Il signore dei cappelli è un uomo che ci accoglie nella sua casa restando seduto e facendo un cappello mentre un pollo spennato scorrazza tra le nostre gambe. Lui e la sua estesa famiglia si presentano, scambiano con noi qualche chiacchiera e acconsentono a farci vedere il loro terreno e le loro attività. I bimbi sono divertiti nel farci vedere come prendono l’acqua dal pozzo, le ragazze più grandi ci scrutano
e parlano tra loro mentre le donne ci mostrano le piccole costruzioni di cui è composta la casa.
Ma la mia attenzione è focalizzata prevalentemente su di lui, un bimbo dal pancione gonfio e gli occhi dolci dolci. Mi segue tenendomi per mano e non appena mi fermo si appoggia con la testa sulla mia pancia. Non parla, ma abbiamo stabilito comunque un contatto. Ho il desiderio di portarlo via con me, ma mi ricordo che lì c’è la sua famiglia. Il suo papà che fa i cappelli, la sua nonna che veglia su tutto e su tutti e i suoi fratelli. Cosa penserebbe della mia casa senza piante, senza animali e con così pochi abitanti?
Il mio papà non sa cambiare una lampadina, il suo per hobby lavora coloratissimi cappelli.

Insieme

Ho condiviso questa esperienza con altre 16 persone. Un gruppo davvero eterogeneo. Fratelli, adulti, giovani e giovanissimi. Ho cantato con loro, ho mangiato con loro e ho lavorato con loro. Ma soprattutto ho scoperto con loro.
Vivere l’Africa in gruppo ti costringe a confrontare costantemente dove sei e da dove vieni.
E insieme, abbiamo scoperto che l’Italia è un luogo bellissimo e ricco; e sempre insieme, che ne abbiamo lasciato uno altrettanto ricco, non di soldi, ma di valori. Bianco e il nero. Siamo abituati a coglierne le differenze, la totale opposizione.
E ciò che non concorda, spaventa. Un nero in Europa è un intruso così come un bianco lo è in Africa. Eppure entrambi siamo circondati dagli stessi colori. Il verde della natura, l’azzurro del cielo e il rosso del sangue. Quel sangue che scorre incessante in me e in te e che ci fa ricordare che per prima cosa non siamo bianchi o neri, ma siamo umani.

Arrivederci

Ti lascio con un arrivederci cara Africa. Non con un addio n’è con un saluto spavaldo. So che non tornerò a breve, quindi mi porto ia un pezzetto di te. Le tue stoffe colorate, il tuo ebano liscio, il ricordo dei tuoi odori, dei tuoi bimbi e tutto quello che ho imparato in questo poco tempo. Non so se una volta tornata a casa cambierò o migliorerò, ma è sicuro che ti penserò e non ti scorderò.

 

 

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