Dove l’impegno diventa futuro

Abbiamo rivolto dieci domande a frère Sylvain, direttore di Villa Brea a Chieri, per conoscere da vicino il suo sguardo sull’Africa, sull’educazione e sul senso della speranza.
Dalle sue parole emerge la forza di chi ha visto cambiare un Paese, ma anche la consapevolezza che il cammino verso uno sviluppo autentico passa dall’impegno quotidiano, dall’educazione e da una solidarietà che unisce i popoli.

Quando eri bambino in Burkina Faso, qual era il bisogno più grande che sentivi ogni giorno?
Provenendo da una famiglia agiata, il mio bisogno più grande non era quello di avere abbastanza da mangiare, come accadeva a molti miei compagni d’infanzia. Il mio sogno era poter andare a scuola, perché in quel tempo pochi bambini avevano questa possibilità.
Importunavo spesso i miei genitori con la stessa domanda: “Quando andrò a scuola?”

C’è stato un momento preciso in cui hai capito che l’educazione poteva davvero cambiare la tua vita?
Già dal primo anno di scuola primaria rimasi colpito dal sapere e dallo stile di vita dei maestri e dei coloni francesi. Capii subito che il mio futuro passava attraverso la scuola, che mi avrebbe permesso di acquisire conoscenze e diventare, un giorno, come “i bianchi”.
Il giorno in cui partecipai alla cerimonia di accoglienza del primo treno arrivato a Ouagadougou, nell’allora Alto Volta, nel 1954, ne ebbi la conferma. Vedere per la prima volta un treno, frutto dell’intelligenza umana, rafforzò la mia convinzione sull’importanza dell’educazione, per me e per tutto il Paese.

Se oggi potessi offrire una sola cosa a ogni bambino del tuo villaggio, cosa sceglieresti e perché?
L’educazione resta la priorità, ma i bambini spesso mancano del necessario per studiare o vivere bene. Offrire una sola cosa dipenderebbe da età, bisogni e possibilità economiche.
Ai più piccoli darei pastiglie vitaminiche o biscotti arricchiti, perché molti soffrono di carenze nutrizionali.
A chi non frequenta ancora la scuola, tra i tre e i sei anni, donerei un piccolo kit per l’igiene con sapone, spazzolino e dentifricio: la salute passa anche da lì, ma spesso è trascurata per mancanza di mezzi.
Agli alunni della scuola primaria regalerei zainetti resistenti, penne e quaderni, perché molti genitori non possono acquistarli.
Ai ragazzi del post-primario offrirei lampade solari personali, poiché l’accesso all’elettricità è limitato e servono per leggere e ripassare la sera.
Le risorse individuali sono scarse, per questo è necessario agire insieme, con piccoli progetti strutturati e condivisi.

Cosa ti addolora di più quando torni in Africa e vedi che alcune situazioni non sono cambiate?
Mi fa male constatare che, nonostante i progressi, certi problemi restano identici. Le scuole hanno ancora banchi rotti e classi sovraffollate, dove i bambini siedono a terra e gli insegnanti spesso non vengono pagati. Le donne continuano a percorrere lunghe distanze con carichi sulla testa, i bambini malnutriti o ammalati restano troppi e molte tradizioni dannose, come l’escissione o i matrimoni precoci, resistono ancora. Tutto questo mi addolora profondamente, perché so che basterebbe poco per cambiare davvero.

Cosa ti ha dato, in più, l’essere frère nella comprensione dei bisogni del tuo Paese?
Diventare frère mi ha fatto abbracciare il carisma della Congregazione, ispirato da Fratel Gabriel Taborin, attento ai bisogni del suo tempo e all’educazione cristiana dei giovani.
Essere formato a questo spirito mi ha aperto alla realtà della Chiesa e del mio Paese, mettendo al centro solidarietà e carità.
Oggi do priorità all’aiuto ai poveri, all’accesso all’acqua, alla salute, all’istruzione, alla valorizzazione delle iniziative comunitarie e alla cooperazione locale.

Secondo te, qual è il malinteso più diffuso tra gli europei sulla vita nei villaggi africani?
Molti europei pensano che i villaggi africani siano luoghi di miseria assoluta, fermi nel tempo e privi di modernità. Immaginano capanne di paglia, bambini nudi e povertà ovunque. Ma oggi molti villaggi hanno telefoni cellulari, lampade solari, strutture sanitarie e scolastiche di base. Possono essere poveri dal punto di vista economico, ma sono ricchi di solidarietà, tradizioni, conoscenze pratiche e resilienza.
Gli europei dovrebbero uscire dai loro schemi e conoscere davvero l’Africa, con mente aperta e desiderio di imparare.

C’è un progetto del CAMSAFA che ti ha particolarmente colpito per il cambiamento che ha generato?
Sì, il progetto di Nanoro. È un’iniziativa a lungo termine che ha trasformato completamente il villaggio. Un tempo isolato e poverissimo, oggi Nanoro è diventato un piccolo centro rurale con acqua potabile, scuole primarie e secondarie, strutture sanitarie, un ospedale, agricoltura sostenibile, energia elettrica e strade praticabili. Questo sviluppo è stato possibile grazie alla combinazione tra risorse, volontà locale e accompagnamento costante. È un esempio concreto di crescita duratura.

Qual è il volto o lo sguardo che non dimenticherai mai tra quelli incontrati nei villaggi?
È lo sguardo dell’ospitalità, il sorriso di chi ti accoglie offrendoti un bicchiere d’acqua, un pasto o semplicemente un “benvenuto”, senza chiedere nulla in cambio. È uno sguardo che dice: “Sei a casa tua”. Uno sguardo che non si dimentica, perché attraversa tutte le barriere culturali e materiali.

Se dovessi spiegare a un giovane europeo perché è importante aiutare chi vive oggi in Burkina Faso, cosa gli diresti?
Prima di tutto eviterei ogni tono moralizzante. Mi rivolgerei al senso di umanità che ci accomuna. È importante aiutare chi vive in Burkina perché condividiamo lo stesso pianeta. Il Paese soffre oggi le conseguenze del cambiamento climatico, la siccità e la desertificazione, pur non essendone la causa. Quando la Terra soffre da una parte, soffre ovunque.
Le disuguaglianze non sono naturali. Un bambino nato a Ouagadougou o a Parigi non ha scelto dove nascere, e aiutare non significa fare beneficenza, ma ristabilire giustizia. Il futuro dell’Europa e dell’Africa è intrecciato, e sostenere educazione, pace e sviluppo in Burkina significa costruire un mondo più stabile per tutti.
Infine, chi aiuta ha sempre qualcosa da imparare. La solidarietà non è imposizione, ma incontro.

Cosa significa per te speranza oggi, e dove la vedi nascere nei progetti del CAMSAFA?
Per me la speranza è la fiducia in un futuro migliore. È credere che la vita possa migliorare per tutti, grazie all’educazione, alla salute, alla pace, alla giustizia e alla cura della natura. La vedo nascere nei progetti del CAMSAFA, che portano acqua, energia solare, scuole, centri sanitari e alberi nelle comunità. Ogni volta che un bambino studia alla luce di una lampada solare o che un villaggio ha acqua potabile, la speranza diventa realtà.

Le parole di frère Sylvain ci ricordano che la speranza non è un sentimento, ma una responsabilità. E che ciascuno di noi può esserne parte.