Lasciar perdere tutto

Campo di lavoro e di amicizia agosto 2017
don Martino Ferraris

Raccontare l’esperienza in Burkina Faso appena vissuta con i ragazzi di Castiglione T.se, e Usmate Velate (Mi) è un’emozione grande. Certamente non contenibile in poche righe perché fatta di “tempo” davvero vissuto fino al midollo. Tuttavia provo a condividere alcuni sentimenti con gioia.

Pensare a quei giorni mi fa venire in mente la parola famiglia. Sì, si è creato tra noi in tempo rapidissimo un clima di casa, di fratellanza, di famiglia; non uno contro l’altro, uno senza l’altro ma uno per l’altro, uno per tutti, tutti per uno.

Al di là delle situazioni di vita che ognuno sta vivendo ci siamo sentiti tutti sullo stesso piano, direttamente in ascolto di una realtà che aveva bisogno di educarci: l’Africa!

Ed ecco che da questo sentimento nascono le parole espresse nel titolo di questo breve scritto. Apparentemente da leggere insieme ma in verità da assaporare con dei punti; cambia il significato! Lasciare. Siamo partiti per un viaggio verso una terra lontana e abbiamo vissuto l’impatto del “lasciare” qualcosa di noi e di nostro alle spalle. Non solo oggetti, case e affetti ma, forse, anche qualcosa del nostro profondo che non poteva venire con noi, qualcosa di noi da cambiare, da convertire.

Dopo quindici giorni in Burkina ecco nuovamente riecheggiare questa parola. Partire per l’Italia vuol dire ritornare in un Paese non più vicino ma anch’esso lontano, distante dalla pace, dall’umanità e dalla serenità dell’Africa. Capiamo che “lasciare” è una condizione importante per crescere.

C’è poi la seconda parola, perdere. Gli stranieri diventiamo noi, il nostro “colore” sbiadito ci espone e qualcuno dei più giovani in Africa sorride al vederci. Stranieri fatti diventare fratelli rapidamente, accolti, stimati, onorati. Almeno in noi si è fatto largo il pensiero che l’esperienza missionaria non è una specie di conquista per chi arriva ma una perdita.

Si va laggiù per perdere, per sentirsi a mani vuote, per lasciarsi educare da chi, pur avendo poco e neppure l’essenziale, ha conservato la bellezza della dignità umana così soffocata e spenta dallo stordimento idiota del nostro cosiddetto “mondo”.

Un tempo si colonizzavano queste terre, forse ancora oggi. Non è così nelle missioni. Si va per perdersi e per perdere. Pregando sulla tomba di fratel Silvestro Pia ho sentito in me un fremito e mi pare di aver capito cosa significa essere missionari: non risolvere le situazioni di chi è povero ma condividerle fino in fondo, nello stesso fango, nello stesso cibo, nello stesso “nulla”. Questo è perdere. Non ne sono capace personalmente. Proverò a farlo condividendo di più la vita della gente che trovo a casa.

Infine l’ultima parola: tutto. I giorni in Burkina ci hanno dato la piena consapevolezza che ci può essere il tutto anche in poche cose. Il tutto non è fatto della somma di quanto si possiede o si riesce ad ottenere ma dal tempo per se stessi e per le relazioni che si riesce a vivere. Come dice il Cristo ai suoi: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?”.

Così, ritornando a casa, penso sia questo tuttoda non perdere insieme al motto ormai diventato famigliare non c’è problema, così tanto caro agli africani. In questa epoca del nostro mondo in cui rimaniamo incollati a telefoni, a giochi spersonalizzanti, agli schermi del grande fratello, un po’ di Africa ci ha stimolato a pensare che esistono davvero i grandi fratelli e sono quelli senza soldi, che vivono insieme non dietro uno schermo in una casa di imbecilli ma dietro lo schermo del mondo spesso eliminati da ll’indifferenza di un occidente in panciolle, obeso, seduto su un sofà per osservare distrattamente il mondo. Noi, spero, desideriamo un posto diverso da questo!

Grazie a Dio, grazie ai Fratelli della Sacra Famiglia, grazie ai fratelli del Burkina.

 

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