Quanto ci piace quest’Africa?

Campo di lavoro e di amicizia agosto 2010
Caterina Calleri

 

Il mondo è un libro: chi non viaggia legge solo la prima pagina S. Agostino.

E così siamo partiti in nove, con le nostre valigie, sapendo e sognando cosa ci aspettava, ma senza riuscire a immaginarcelo veramente. Destinazione Nanoro, Burkina Faso.

L’odore dell’Africa invade le nostre narici e penetra nei vestiti al primo passo fuori dall’aereo. L’aria è umida, pesante, sembra quasi di non riuscire a respirare.
Anche le persone hanno un profumo forte, diverso, mai sentito.

Le strade sono per lo più sterrate: le piste africane, piene di buchi, dossi e pietre. Fratel Georges guida il pulmino bianco scassato a più di 100km/h, facendoci sbalzare da una parte all’altra della cabina. Fuori dal finestrino una distesa di terra rossa, con alberi verde smeraldo e qualche ciuffo d’erba. Non ci sono montagne, non ci sono colline, il paesaggio non varia, ma viene interrotto qua e là da qualche agglomerato di case di argilla e paglia.

Quest’anno la stagione delle piogge è in ritardo e si teme la carestia. La natura è indietro, il miglio è alto appena due spanne.
Il cielo è sereno, ma il caldo e l’umidità lo rendono più grigio del nostro. Anche le nuvole sono diverse: batuffoli di cotone sopra e piatte nella parte inferiore, sembrano poggiare su una lastra di vetro.

Al nostro arrivo a Nanoro i bambini sorridono, ci salutano e corrono dietro al pulmino, ormai sporco e rosso, urlando “nasara” (uomini bianchi). I loro sguardi sono diversi, neri, penetranti. Loro parlano con gli occhi. Gli adulti ci guardano con diffidenza, i bambini piccoli piangono; anche i bambini bianchi piangerebbero se si trovassero davanti l’uomo nero.

La giornata inizia con il sorgere del sole e finisce con il buio. I bambini lavorano nei campi con i genitori o i fratelli più grandi dalle 5 del mattino alle 15 del pomeriggio.
Quando mettiamo il naso fuori dalla casa dei FSF spuntano a poco a poco da tutte le parti, dai più piccoli ai più grandi. Alcune bambine di quattro o cinque anni portano sulla schiena i fratellini appena nati.

Ogni tanto andiamo in visita nei villaggi vicini dove i Fratelli hanno portato l’acqua potabile, hanno insegnato a coltivare, a lavorare il ferro e intagliare il legno, hanno finanziato progetti. Tutti ci accolgono con canti d gioia, hanno voci bellissime, ballano e invitano le ragazze bianche a farlo con loro. Ci stringono la mano uno per uno e sussurrano “barka” (grazie). E noi con gli occhi umidi e i cuori pieni di commozione ricambiamo i loro saluti e i loro sorrisi.

Persino la Messa è diversa. È più lunga, un po’ in francese e un po’ in morè, la lingua locale, ma i canti penetrano nel profondo di ciascuno di noi e sicuramente arrivano fino in cielo. Sono emozioni uniche e indescrivibili. L’accoglienza è diversa, i modi di fare sono diversi, i ritmi di vita sono diversi. Sono poveri e vivono in condizioni precarie, ma loro vivono in pace e sono felici.
Non conoscono la nostra frenesia, la nostra arroganza e la nostra smania di avere di più. Hanno un sorriso per tutto e per tutti.
Quanto ci piace quest’Africa?
Fa venire voglia di restare…

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